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La task force che spinge Bologna

di Francesco Gaeta

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12 gennaio 2010
Nella foto uno sbarco delle truppe speciali turche a Smirne (Afp)

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Il precario ponte con le imprese
Ed è qui il problema. La lista è estesa ma ad essere enormi, addirittura fuori scala, sono i bisogni delle aziende. Sempre a sentire Benini, che è anche visiting professor a Losanna e ha un incarico di capoprogetto alla StMicro in Francia, dunque ha un confronto ancora vivo con le buone prassi estere. «Lì la catena che collega il laboratorio all'azienda è chiara, e così i tempi in cui passare dall'uno all'altra. Negli Usa non ho mai visto chiedere al ricercatore di ingegnerizzare il prodotto: il laboratorio non fa problem solving imprenditoriale. E nessun investitore pone l'aut aut: se non posso guadagnarci qualcosa subito, allora è inutile metterci soldi». Sorpresa: nel confronto con gli Usa, è in Italia che la food chain si fa cortissima e strozza in culla l'evoluzione industriale dei prototipi. «Scontiamo anche la storica assenza di venture capital» aggiunge Benini. E per farsi capire cita un caso personale, una start up creata con alcuni studenti un paio d'anni fa. «La Inocs fa sistemi integrati su singolo chip. In pratica centinaia di processori su un solo supporto, con il risultato di moltiplicarne la potenza e dunque la velocità di reazione». Sul tema, Benini ha scritto un articolo che lo ha reso una piccola star nella comunità internazionale. L'idea è che sia possibile trasferire il principio di internet - una rete di reti - all'interno di un microprocessore per potenziarlo all'ennesima potenza. In Italia l'idea non attira. «Negli Usa la Inocs sarebbe già entrata in una pipeline meccanizzata: venture capital a fornire finanziamenti di rischio, servizi di management da agenzie esterne all'università, produzione presso incubatori patrocinati dall'ateneo».

Cosa chiede l'Europa
Che la ricerca o è industriale o semplicemente non è, è comunque chiarissimo ai signori della spesa che abitano a Bruxelles. Le griglie sui progetti da approvare si sono fatte ferree, ma nel tempo non hanno stritolato Bologna. Nel passaggio al VI al VII programma quadro il team di Quarta ha messo la vela nel modo giusto: l'ateneo ha presentato 596 piani, ne ha visti approvati quasi uno su cinque (110) e ha raccolto oltre 30 milioni di euro. In settori strategici come Itc, nanoscienze, aerospaziale. E biomedicale. Un comparto che in Emilia appare l'ultima torsione virtuosa dell'antica vocazione alla meccanica, poi meccatronica. Il biomedicale, infatti, vuol dire anche scienza dei materiali e analisi cinetica. Significa le ricerche di Adriana Bigi, ordinario di Chimica ed esperta di applicazioni biomediche, sui fosfati di calcio, che hanno dato vita a un brevetto di frontiera. «È uno scaffold, una impalcatura porosa a base di due fosfati addizionati con cellule che stimolano la produzione di materiale osseo. È una protesi a bassissimo impatto per il corpo umano: il suo indurimento non sviluppa calore e non crea rischi di rigetto». In questo caso il brevetto ha trovato un acquirente sul territorio, la Finceramica di Faenza, nata nel '92 come spin off dallo storico Istec (Istituto di scienze e tecnologia dei materiali ceramici). Come dire: il biomedicale come ultimo stadio della piastrella.

La riforma dei tecnopoli
Ma c'è un altro attore da tenere presente nel tracciare il filo sempre più robusto che a Bologna lega laboratori universitari e imprese. È la Regione, che a novembre ha annunciato un nuovo modello di policy. La ricerca polverizzata negli atenei si sedimenterà a breve in 10 tecnopoli, come quello che a Bologna sorgerà nell'ex sede Bat. Saranno piattaforme nuove di zecca, con personale dedicato e assunto ex novo. Un investimento da 234 milioni, 130 dei quali dall'ente di governo locale. «Una svolta strategica» ha detto di recente il presidente Vasco Errani. «Un sistema a doppia matrice» aggiunge oggi l'assessore alle Attività produttive Duccio Campagnoli. «Una è orizzontale, la messa a sistema di imprese e università del territorio. L'altra è verticale, e aggrega i saperi per aree tematiche». Il legame vuol diventare osmosi, seguendo anche qui Bruxelles, che sta privilegiando i cluster territoriali come chiave per erogare denaro. «Nel nostro caso - assicura Campagnoli - con i tecnopoli vorremmo imitare il Baden Württenberg: l'ente pubblico concede finanziamenti ai laboratori condizionandoli però a una commessa da parte delle aziende». Insomma come chiede Bruxelles, a Bologna la ricerca sarà sempre più applicata. O non sarà.

francesco.gaeta@ilsole24ore.com

12 gennaio 2010
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